Naturale non è sempre sinonimo di salutare
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Qualsiasi rimedio erboristico contenente sostanze farmacologicamente attive è di fatto un farmaco, con tutto ciò che tale definizione implica, inclusi gli effetti c.d. collaterali e/o avversi. Tale ovvietà sembra spesso sfuggire alla maggior parte dei consumatori e, talvolta, anche agli stessi operatori sanitari, con ovvio aggravamento del problema, in primo luogo della sicurezza di detti prodotti.
Il problema è ulteriormente aggravato dalla considerazione che gli stessi, tranne poche eccezioni, non vengono sottoposti a tutte quelle valutazioni rigorose prescritte per i farmaci veri e propri, e quindi non sono soggetti alle procedure di approvazione richieste per la commercializzazione ed i controlli di qualità previsti per i farmaci convenzionali. La conseguenza è che difficilmente le controindicazioni o le avvertenze circa l’uso corretto di questi farmaci di origine vegetale vengono menzionate nei testi descrittivi presenti nelle confezioni.
I rischi riguardano non solo la possibilità di sviluppare reazioni avverse da erbe medicinali, ma anche i possibili effetti indesiderati dovuti alla concomitante assunzione di un farmaco di sintesi ed un rimedio erboristico. Infatti, solo una piccola minoranza dei soggetti che ricorrono alla fitoterapia la considerano “alternativa” alla farmacoterapia: frequentemente i rimedi erboristici si associano ai farmaci per potenziarne l’attività, ridurne gli effetti collaterali o migliorare la qualità della vita. In tali circostanze, vi è il rischio di interazioni tra i due composti, le quali spesso non hanno dirette implicazioni cliniche, ma che in alcuni casi possono avere effetti drammatici.
Ormai da qualche anno è nota ad esempio la capacità dell’iperico o “Erba di San Giovanni” di indurre l’attività del citocromo P-450 3A4, un enzima importantissimo nella metabolizzazione di numerosi farmaci; sono stati segnalati casi di rigetto da trapianto dovuti all’associazione iperico-ciclosporina o di gravidanze indesiderate provocate dalla combinazione dell’erba con un contraccettivo orale. L’iperico può anche interagire con alcuni antidepressivi, determinando un effetto additivo che può provocare la comparsa di eventi avversi associati ad un sovradosaggio del farmaco. In letteratura sono descritti diversi casi clinici di questo tipo in cui l’iperico, utilizzato assieme a paroxetina, nefazodone e sertralina, ha provocato nausea, vomito, sudorazione profusa, mioclono, iperreflessia, incoordinazione, ed altri sintomi riconducibili alla “sindrome serotoninergica”, una patologia potenzialmente fatale.
Un altro esempio di interazione tra erbe e farmaci è quello del ginkgo biloba, che avendo la capacità di interferire con la funzionalità piastrinica, può causare un effetto additivo con gli anticoagulanti come il warfarin e con i farmaci antiaggreganti piastrinici quali l’aspirina; tali associazioni possono provocare emorragie anche gravi, e vanno pertanto sempre evitate.
Anche la liquirizia può determinare importanti interazioni, con effetti che potrebbero essere particolarmente gravi in soggetti che assumono digossina, a causa della capacità della pianta di ridurre i livelli di potassio nel sangue ed in tal modo potenziare la tossicità della digossina, che si manifesta con nausea, alterazioni visive e gravi aritmie cardiache.
Più subdoli e certamente meno studiati sono ad esempio i rischi di interazioni tra gli anestetici (ed altri farmaci utilizzati negli interventi chirurgici) e le erbe assunte nel periodo preoperatorio. In particolare, il ginseng, il ginkgo biloba e l’aglio potrebbero aumentare il rischio di emorragie durante l’intervento, mentre la valeriana o altri rimedi erboristici ad azione sedativa potrebbero potenziare l’effetto sedativo degli anestetici.
A fronte degli esempi sopra riportati di interazioni erbe-farmaci ormai ben documentate, nella maggior parte dei casi le conseguenze cliniche di queste associazioni sono quasi del tutto sconosciute e pertanto sottovalutate; d’altra parte è praticamente impossibile, anche per un medico esperto, riconoscere tutte le combinazioni pericolose e definirne il nesso di causalità.
Pertanto, per accrescere le conoscenze su questi prodotti, è necessario il contributo sia degli operatori sanitari sia dei cittadini, i quali devono tempestivamente dichiarare al proprio medico o farmacista qualsiasi evento avverso manifestatosi in corso di trattamento con un rimedio erboristico. Solo così infatti sarà possibile identificare precocemente ed inequivocabilmente una associazione causale tra assunzione del prodotto erboristico ed insorgenza della reazione avversa, salvaguardando la salute dei consumatori.
Invero, già tempo addietro[1] Ricercatori italiani avevano lanciato l’allarme (Attenzione ai farmaci a base di erbe, perché non tutto ciò che è naturale e può sembrare innocuo lo è), ricordando a tutti – come sopra sottolineato – che le sostanze naturali possono avere effetti collaterali come i farmaci tradizionali e non hanno test che ne assicurino efficacia e sicurezza.
I farmaci di origine vegetale, a differenza di quelli di “sintesi”, non sono regolamentati da un ente come la Food and Drug Administration e non hanno test che ne assicurino efficacia e sicurezza prima di essere immessi in commercio. Solo l’uso dei mirtilli rossi per la prevenzione delle infezioni urinarie ricorrenti nelle donne è supportato da prove scientifiche – scrivevano i ricercatori – mentre l’efficacia di altri farmaci a base di erbe non è stata provata.
Infine, prima di concludere, un cenno alle interazioni tra farmaci convenzionali e integratori/multivitaminici. e farmaci convenzionali. Generalmente tali preparati rientrano in un’operazione commerciale che fa presa su mode del momento e sulla comune convinzione che “tanto non fanno male!”. Infatti, in tanti pensano che, se gli integratori non riescono a raggiungere l’effetto desiderato, non hanno comunque alcun effetto negativo sull’organismo.
Le recenti raccomandazioni della U.S. Preventive Services Task Force[2] confermano i risultati di precedenti revisioni e metanalisi che concludevano che la supplementazione costante di multivitaminici e sali minerali non solo non è associata ad alcun effetto protettivo ma che non è nemmeno del tutto priva di rischi. L’eccesso di alcune vitamine liposolubili, ad esempio, può comportare effetti tossici: alcuni studi hanno infatti osservato un piccolo aumento della mortalità associato al consumo regolare di betacarotene e vitamina E, suggerendo che la supplementazione vitaminica in una popolazione senza evidenti carenze nutrizionali non offre vantaggi apprezzabili sul piano clinico, ma comporti solo possibili rischi. Con l’uso di combinazioni di vitamine ad attività antiossidante è stato osservato anche un più alto rischio di sviluppare cinque tipi di tumore del tratto gastrointestinale rispetto ai pazienti che assumevano placebo.
In maniera analoga uno studio in cui è stata valutata l’efficacia della vitamina E in associazione a selenio nella prevenzione del tumore alla prostata è stato evidenziato, a distanza di 7-12 anni, un aumento inaspettato del rischio di sviluppare questo tumore nel gruppo trattato con vitamina E[3].
Per quanto attiene poi i pazienti oncologici e l’uso di integratori alimentari, va citato che i risultati di alcuni studi osservazionali, che necessitano tuttavia di ulteriori conferme, suggeriscono che gli integratori a base di antiossidanti, ferro, vitamina B12 e omega-3 sono associati ad un aumento del rischio di recidive di tumore al seno. In questo caso è stato ipotizzato che l’effetto antiossidante degli integratori possa ridurre l’efficacia di alcuni chemioterapici inibendo l’azione dei radicali liberi da essi prodotti. E’ quindi importante che l’uso di integratori vitaminici nei pazienti oncologici avvenga sotto stretto controllo medico.
E’ questa una indicazione generale: parlare sempre con il proprio medico circa i possibili effetti collaterali dei farmaci a base di erbe o delle possibili interazioni con le terapie o le patologie correnti.