La pizza: da cibo di strada a patrimonio dell’umanità
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La pizza è una delle più grandi invenzioni dell’Umanità; certamente è l’eccellenza gastronomica più conosciuta al Mondo, ed è un merito tutto italiano e napoletano in particolare. Però non tutti sanno che è solo dopo la fine della seconda guerra mondiale che la pizza ha cominciato a varcare i confini della Campania ed essere conosciuta nel Mondo fino a diventare una protagonista assoluta della gastronomia.
Certamente oggi la pizza rappresenta il prodotto gastronomico italiano più conosciuto, più diffuso e più consumato al mondo. Sono ben 2,7 miliardi le pizze consumate nel 2021 in Italia (dati Aibi).
La pizza Margherita è ritenuta la tipica pizza napoletana insieme alla pizza marinara, la più popolare.
Il pizzaiolo è ormai un mestiere diffuso in tutto il Mondo, presente anche nei posti più reconditi; e non sempre i pizzaioli napoletani sono i più bravi.
Origini della pizza
La pizza nella sua versione primordiale di disco di pasta cotto su pietra nasce addirittura nel Neolitico; è bene però fin da ora precisare che solo nel XVIII secolo appare un prodotto che possa essere definito “pizza”. Eppure già gli egizi intorno al 4.000 a.C. facevano uso della “pita”, un tipo di pane piatto lievitato, rotondo, a base di farina; gli Egizi essi conoscevano il segreto della lievitazione e l’uso del forno (tra l’altro, gli egiziani erano anche grandi bevitori di birra; forse ad essi si deve anche l’abbinamento pizza – birra).
Più di 4mila anni fa in Mesopotamia si preparava un impasto schiacciato a forma di disco facile da modellare, successivamente questo impasto arrivò in Grecia con il nome di pita, in greco pitta, e di qui nel Mediterraneo.
In Italia già nell’antichità si cuoceva un impasto a base di farina ed acqua lievitata (o meno) non solo per fare il pane, ma anche per fare delle schiacciate di pasta di pane. Di qui una delle ipotesi per spiegare l’etimologia del termine. Secondo alcuni infatti il nome “pizza” deriverebbe da pinsa, participio passato del verbo latino pinsere oppure del verbo pansere, cioè pestare, schiacciare, pigiare che deriverebbe da pita mediterranea e balcanica, in greco (πίττα, derivato da peptòs ossia “infornato”; secondo quest’ultima ipotesi la parola deriverebbe dall’ebraico פִּתָּה o פיתה, dall’arabo كماج che appartiene alla stessa categoria di pane o focacce. Altre ipotesi farebbero derivare il termine dall’antica parola germanica “bizzo” o “pizzo”, dal significato di “morso”, “focaccia” (in relazione anche alle parole inglesi “bit” e “bite”), importata in Italia nella metà del VI secolo durante l’invasione dei Longobardi. Questa sarebbe l’origine più accreditata secondo l’Oxford English Dictionary, anche se non è stata mai confermata.
Certo è che schiacciate o pani a forma piatta, come la pizza, sono da epoche immemorabili presenti nell’area del Mediterraneo: esempi di essi che sopravvivono ai giorni nostri da quell’antico mondo sono la “focaccia” che può essere fatta risalire fino agli antichi etruschi, la “coca” (che ha varietà sia dolci che salate) della Catalogna, della zona di Valencia e delle Isole Baleari, la “pide” in turco o “piadina” in romagnolo. Pani simili, sempre a forma piatta, in altre parti del mondo comprendono il “paratha” indiano, il “naan” sudasiatico, il “carasau”, la “spianata” e il “pistoccu” sardo, la “flammkuchen” alsaziana e il “rieska” finlandese
Archeologi italiani e francesi hanno trovato in Sardegna un tipo di pane infornato risalente a circa 3.000 anni fa; sembra che le popolazioni della Sardegna conoscevano e utilizzavano il lievito.
Gli antichi greci preparavano un pane di forma appiattita, chiamato plakous (πλακοῦς, genitivo πλακοῦντος – plakountos) che veniva condito con vari aromi, tra cui aglio e cipolla.
Inoltre si narra che il re dei persiani, Dario il Grande (521-486 a.C.), e i suoi soldati cuocevano un tipo di pane appiattito usando gli scudi per la cottura, con una farcitura di formaggio e datteri.
Nel III secolo a.C., Marcus Porcius Cato, noto come Catone il Vecchio, ricordato per aver scritto la prima storia di Roma, racconta di un “tondo piatto di pasta condito con olio d’oliva, erbe aromatiche e miele cotto su pietre”.
Nel I secolo a.C., il poeta latino Virgilio (Publio Virgilio Marone) fa riferimento all’antica idea del pane come piatto commestibile o tagliere per altri cibi; egli scriveva nell'”Eneide”: “Sotto un albero ombroso, l’eroe stendeva la sua tavola sul tappeto erboso, con torte di pane; e, con i suoi capi, sui frutti della foresta che nutriva. Essi saziano; e (non senza il comando del dio). La loro casalinga lontana spedizione, la banda affamata invade poi le loro trincee, e presto divora per riparare il pasto profumato, le loro torte di farina… Vedi, noi divoriamo i piatti di cui ci siamo nutriti“.
A Pompei, sepolta nel 79 d.C. dall’eruzione del Versuvio, sono state trovate prove di una torta di farina piatta cotta e mangiata; sono state trovate anche prove di botteghe, complete di lastre di marmo e altri strumenti del mestiere, che ricordano le odierne pizzerie. Il Museo Nazionale di Napoli espone una statua di Pompei chiamata Il pizzaiolo, grazie alla sua posizione e al suo soggetto.
Le prime attestazioni scritte della parola “pizza” risalgono al latino volgare di Gaeta nel 997, come compenso per un contratto di affitto di un mulino situato nel territorio dell’attuale Comune di Castelforte; il documento, conservato nell’archivio del duomo di Gaeta, afferma che, oltre all’affitto, ogni anno erano dovute ai proprietari nel giorno di Natale «duodecim pizze et una spatola de porco», assieme ad altri beni alimentari. E dodici pizze erano la regalia prevista pure per Pasqua. La parola pizza compare poi in un contratto di locazione di alcuni terreni, con data sul retro 31 gennaio 1201, scritto su pergamena d’agnello, custodito presso la biblioteca della diocesi di Sulmona-Valva (la parola “pizzas” è ripetuta due volte).
Uscendo dai primordi, la prima “pizza” napoletana sembra sia stata la “pizza alla mastunicola” (pizza alla mastro Nicola), ideata da un non meglio identificato mastro Nicola che conduceva (1490 ca) una piccola taverna con cucina casareccia nei dintorni della centrale Rua Catalana (stradina che collega via Medina con via Depretis, quartiere Porto) dove aprivano bottega numerosissimi artigiani catalani del ferro che si rifocillavano quotidianamente in quella piccola taverna; si trattava di una semplicissima pizza condita con dello strutto di maiale (’nzogna ), e con abbondante formaggio pecorino, sale grosso, guarnita con del basilico (pepe facoltativo) e cotta in forno. Si trattava piuttosto di un prodotto simile a una schiacciata, una focaccia salata sottile, arricchita da ingredienti come strutto e formaggio grattugiato, piuttosto che di una pizza vera e propria.
E’ opportuno ricordare che ancora tra il Seicento e l’Ottocento nei ricettari napoletani la parola “pizza” indicava preparazioni rustiche e dolci eseguite da cuochi piuttosto che da pizzaiuoli. Nel XVI secolo a Napoli ad un pane schiacciato venne dato il nome di pizza che deriva dalla storpiatura della parola “Pitta”. Prima del XVII secolo la pizza era coperta con salsa bianca.
GianBattista Basile, nell’opera in lingua napoletana “Lo cunto de li cunti o lo trattenimiento de peccerille” (La fiaba delle fiabe ovvero come intrattenere i bambini, Napoli, 1634-1636), racconta come … c’avenno Luceta da scaudare quattro pastinache pe le friere co la sauza verde, disse alla figlia: “Marziella mia, và, bene mio, a la fontana e pigliame na lancella d’acqua”. “De bona voglia, mamma mia”, respose la figlia, “ma, si me vuoi bene, dammi na pizzella ca me la voglio magnare a chell’acqua fresca”. “Volentiere”, disse la mamma e da dintro no panaro che penneva a n’ancino pigliaie na bella pizzella, che lo iuorno ‘nante avea fatto lo furno de pane, e la dette a Marziella..”. Da queste parole, si rileva come fosse usanza preparare la pizza in occasione della panificazione (perché il giorno precedente aveva fatto il forno per il pane).
Prima del XVII secolo la pizza era coperta con salsa bianca e solo più tardi venne arricchita con olio d’oliva, formaggio, pomodori o pesce. A metà del ‘700 un tal Vincenzo Corrado (1738 – 1836), celebre cuoco e letterato italiano, scrisse un pregevole trattato sulle abitudini alimentari della città di Napoli, trattato (Il cuoco galante) in cui osservò come fosse costume del popolo condire la pizza ed i maccheroni con del pomodoro.
Il 1734 è l’anno di nascita della pizza marinara, che è stata la seconda quindi nella storia della gastronomia napoletana, Si narra che un pizzaiolo del porto di Napoli, stanco delle lamentele dei marinai che gli intimavano di condirla (“Nsapuriscila nu pocu”), decise di aggiungere qualcosa che non andasse ad incidere sul prezzo ma ne migliorasse il sapore. Fu così che fece la sua comparsa l’aglio fresco, tagliato a pezzi piccoli. Non una pizza a base di pesce, ma di fatto dedicata ai pranzi poveri dei marinai partenopei. Nacque così un tipo di pizza molto gradito ai marinai napoletani di ritorno dalle uscite in barca (da qui il suo nome).
Talvolta, se la pesca era stata abbondante, vi si aggiungevano anche acciughe o “cicinielli” (anche detti novellame), e quando poi il pomodoro cominciò ad essere più comune anche sulle tavole dei ceti più umili la marinara divenne quella che consumiamo tutt’oggi.
Nel XVIII secolo, la regina Maria Carolina d’Asburgo Lorena, moglie del re di Napoli Ferdinando IV, fece costruire un forno speciale nel loro palazzo estivo di Capodimonte affinché il loro chef potesse servire pizze per sé e per i suoi ospiti.
Nel 1843, Alexandre Dumas (padre) scrisse nella sua opera Il Corricolo, capitolo VIII, che la pizza era l’unico cibo per la gente umile a Napoli durante l’inverno, e che “a Napoli la pizza è aromatizzata con olio, lardo (grasso di maiale), sego (grasso di manzo), formaggio, pomodoro, o acciughe sotto sale“.
Il filologo Emanuele Rocco, nel secondo volume del libro Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti di Francesco De Bourcard pubblicato nel 1858[1], descrive i principali tipi di pizza, ossia quelli che oggi prendono nome di pizza marinara, pizza margherita e calzone: “Le pizze più ordinarie, dette coll’aglio e l’oglio, han per condimento l’olio, e sopra vi si sparge, oltre il sale, l’origano e spicchi d’aglio trinciati minutamente. Altre sono coperte di formaggio grattugiato e condite con lo strutto, e allora vi si pone disopra qualche foglia di basilico. Alle prime spesso si aggiunge del pesce minuto; alle seconde delle sottili fette di muzzarella. Talora si fa uso di prosciutto affettato, di pomidoro, di arselle, ecc. Talora ripiegando la pasta su se stessa se ne forma quel che chiamasi calzone”.
Per la pizza Margherita bisogna attendere invece il 1889, allorché i Reali d’Italia vennero in visita a Napoli. Come documenta una lettera del capo dei servizi di tavola della Real Casa Camillo Galli, Raffaele Esposito[2], cuoco della Pizzeria Brandi in via Sant’Anna di Palazzo a Napoli, fu convocato al Palazzo di Capodimonte, residenza estiva della famiglia reale, perché preparasse per Sua Maestà, la Regina d’Italia Margherita di Savoia, le sue famose pizze. L’intento della Regina era quello di ingraziarsi il popolo dimostrando il proprio apprezzamento per il cibo più popolare. “Don Rafele (ndr. scrive il Parise) obbedì alla chiamata e mise tutto il suo zelo e tutta la sua scienza nel confezionare le pizze per gli augusti clienti”. Presentatosi a Palazzo con la moglie Maria Giovanna Brandi e con tutto l’occorrente caricato in un carrozzino tirato da un asino ne “fece di tutte le qualità ma la Regina che ne assaggiò parecchie, mostrò di gustare particolarmente quella con mozzarella e pomodoro”.
L’ “ispettore di bocca” Galli, in data 11 giugno di quell’anno, nel ringraziare il pizzaiolo, scriveva che “le tre qualità di pizze da Lei confezionate per sua Maestà la Regina vennero trovate buonissime”. Fu così che la pizza con il pomodoro, la mozzarella e il basilico venne dedicata alla Regina e chiamata Margherita; guarda caso, la pizza aveva i colori della bandiera italiana. Da allora la pizza Margherita è assunta alla gloria della gastronomia (anche se, a dire il vero, una pizza così fatta esisteva già).
Quindi una pizza con la “muzzarella” esisteva già, ma era bianca, con lo strutto e il basilico; l’idea originale di Raffaele Esposito sarebbe stata, dunque, quella di aggiungere il pomodoro, che già era utilizzato per quella con l’aglio e l’origano, e, soprattutto, quella di “codificare”, mettere insieme ingredienti già presenti in maniera più semplice. A dire il vero anche su questa versione non sono tutti d’accordo, dal momento che all’epoca esisteva già una pizza (quantunque poco usata) con pomodoro, mozzarella disposta sul disco di pasta già condita con il pomodoro, in maniera sagomata tale da formare i petali di una margherita nonché il suo bottone centrale e con del basilico disposto in maniera da simulare stelo e foglie della margherita.
Le prime pizzerie comparvero a Napoli nel corso del XIX secolo e fino alla metà del XX secolo esse furono un fenomeno pressoché esclusivo della città partenopea. Inizialmente (e fino al 1830) i locali specializzati nella preparazione della pizza erano forni e la pizza si consumava in piedi per strada, poi in seguito trattorie e pizzerie con sedie e tavoli. La più antica pizzeria fu aperta a Napoli a “Port’Alba” nel centro storico della città, all’inizio del decumano maggiore, nel lontano 1738 e serviva per rifornire gli ambulanti che andavano in giro per la città; nel 1830 fu anche la prima ad offrire tavoli e sedie per i propri clienti, tra cui spiccano nomi come Gabriele D’Annunzio, re Ferdinando di Borbone, Francesco Crispi e Benedetto Croce.
Lentamente la focaccia di origine popolare arricchita con pomodoro si diffuse in tutte le classi sociali ed in tutte le regioni italiane. Solo dopo la seconda guerra mondiale la pizza iniziò a diffondersi nell’Italia settentrionale, e poi, sull’onda dell’emigrazione, all’estero, adeguandosi ai gusti dei vari paesi, diventano un fenomeno mondiale. Gli italiani emigrati hanno fatto conoscere ed apprezzare la pizza nel mondo. Oggi ormai anche molti cuochi di differenti nazionalità sono diventati esperti pizzaioli per i quali esiste anche un campionato mondiale dove misurarsi. Oggi il giro di affari legato alla pizza (pizzerie, consegne a domicilio, surgelati, catene di fast food) è molto rilevante nel mondo, al punto che alcuni abili imprenditori (come ad esempio l’americano Tom Monaghan fondatore della Domino’s Pizza) hanno costruito intorno alla pizza grandi fortune.
La pizza ha riconoscimento persino nella smorfia, dove è considerato sotto il numero 24 ed anche con moltissimi altri numeri, secondo come sia variamente condita: pizza napoletana 2, pizza dolce 36, pizza rustica 37, pizza con sugna e formaggio 61, pizza con alici fresche 62, pizza pomodoro e mozzarella 53.
«La pizza napoletana va consumata immediatamente, appena sfornata, negli stessi locali di produzione. L’eventuale asporto del prodotto verso abitazioni o locali differenti dalla pizzeria ne determina la perdita del marchio» (Art. 6 della disciplinare per la definizione di standard internazionali per l’ottenimento del marchio “Pizza Napoletana STG”).
Invero, un modo tradizionale di consumare la pizza a Napoli è quello di consumarla per strada; in questo caso, la pizza viene piegata, insieme con un foglio di carta per alimenti, in quattro. Questo modo di piegare la pizza viene detto, appunto, a portafoglio o a libretto. Questo modo tradizionale di mangiare la pizza è stato reso famoso da Bill Clinton, il presidente degli Stati Uniti d’America, che, in occasione della riunione del G7 a Napoli, si fece fotografare mentre consumava la pizza a portafoglio in via dei Tribunali.
La pizza napoletana con pasta morbida e sottile, ma dai bordi alti, è la versione della pizza tonda preparata nella città di Napoli. Dal 5 febbraio 2010 è ufficialmente riconosciuta come Specialità tradizionale garantita (STG) dell’Unione europea e nel 2017 l’arte del pizzaiuolo napoletano, di cui la pizza napoletana è il prodotto tangibile, è stata dichiarata dall’UNESCO come patrimonio immateriale dell’umanità.