Dieta sostenibile | concetti di base
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Secondo la definizione data dalla FAO nel 2010 “le diete sostenibili sono quelle diete che hanno un basso impatto ambientale e che contribuiscono alla sicurezza alimentare e nutrizionale e a una vita sana per le generazioni presenti e future. Le diete sostenibili sono rispettose della biodiversità e degli ecosistemi, culturalmente accettabili, accessibili, economicamente eque e convenienti, nutrizionalmente adeguate, sicure e salutari, favorendo allo stesso modo l’ottimizzazione delle risorse naturali e umane” (Food and Agriculture Organization of the United Nations, 2010)[1]. Questi attributi non sono chiaramente indipendenti: lo stato di salute dipende anche dalla disponibilità e dall’accesso ad alimenti di buona qualità, e questa qualità dipende dal territorio e dall’ambiente nel quale sono prodotti. Il quadro è pertanto molto complesso e richiede una valutazione attenta e approfondita.
Una dieta sostenibile è quindi un modello alimentare che tiene conto dell’impatto ambientale, sociale ed economico della produzione e del consumo di cibo, allo scopo di garantire il benessere umano (generazioni presenti e future) e la salute del pianeta. In altre parole, una dieta sostenibile cerca di soddisfare le esigenze nutrizionali e di salute delle persone, senza compromettere le risorse naturali o il benessere degli animali e delle comunità coinvolte nella produzione alimentare.
La dieta sostenibile è anche nota come Planetary health diet, cioè “dieta per la salute del pianeta”: un’attenta scelta alimentare infatti può garantire il benessere non solo dell’uomo, ma anche della Terra.
Quando si parla di impatto ambientale delle produzioni alimentari si deve tenere in considerazione tutto il ciclo di vita: dalla coltivazione, alla raccolta, alla trasformazione, all’imballaggio, fino allo smaltimento finale del prodotto. Nel dettaglio, si parla di analisi del ciclo di vita (Life Cycle Assessment, LCA). Per valutarlo, esistono numerosi indicatori che aiutano ad apprendere, in modo semplice, un fenomeno così complesso. I più diffusi sono: l’impronta di carbonio e l’impronta idrica.
L’impronta di carbonio (Carbon footprint) degli alimenti si riferisce alla quantità di gas serra emessa durante l’intero ciclo di vita del cibo, dal momento della produzione fino al consumo finale. Ciò include le emissioni generate dalla coltivazione delle colture, dalla produzione di fertilizzanti e pesticidi, dal trasporto e dalla lavorazione dei prodotti alimentari, dalla conservazione e dal confezionamento, fino al consumo finale e alla gestione dei rifiuti. Secondo uno studio realizzato dalla FAO in collaborazione con il Centro comune di ricerca della Commissione Europea, il settore alimentare contribuisce per oltre un terzo delle emissioni globali di gas ad effetto serra, arrivando al 34% di emissioni di biossido di carbonio.
Alcuni alimenti hanno un’impronta di carbonio più alta di altri, a seconda dei metodi di produzione e della distanza geografica che devono coprire per raggiungere i mercati di destinazione. Ad esempio, la carne rossa ha generalmente un’impronta di carbonio più elevata rispetto alle verdure, poiché richiede più energia per la produzione, il trasporto e la lavorazione.
Tuttavia, l’impronta di carbonio degli alimenti può variare anche all’interno della stessa categoria di prodotti, a seconda delle modalità di produzione e trasporto utilizzate. Ad esempio, le mele coltivate localmente e in modo biologico avranno un’impronta di carbonio inferiore rispetto alle mele importate da lontano e coltivate con metodi intensivi.
Per ridurre l’impronta di carbonio degli alimenti, si possono adottare alcune pratiche come:
- Scegliere prodotti di stagione e locali.
- Scegliere prodotti biologici e di origine vegetale.
- Ridurre il consumo di carne e prodotti lattiero-caseari.
- Scegliere prodotti confezionati con materiali riciclabili o biodegradabili.
- Ridurre gli sprechi alimentari.
- Utilizzare fonti di energia rinnovabile per la produzione, la lavorazione e il trasporto dei prodotti alimentari.
L’impronta idrica (Water footprint) degli alimenti si riferisce alla quantità di acqua dolce utilizzata in tutte le fasi della produzione di un alimento, dal suo inizio come coltivazione o allevamento fino alla sua distribuzione e preparazione per il consumo finale. L’impronta idrica comprende sia l’acqua utilizzata direttamente per la produzione dell’alimento (come l’irrigazione delle colture o l’acqua utilizzata per l’abbeveraggio degli animali) che l’acqua utilizzata per produrre i fertilizzanti, i mangimi, l’energia e i materiali necessari alla produzione dell’alimento. Si tratta di un indicatore ambientale che agevola il necessario processo di monitoraggio delle risorse idriche disponibili.
L’impronta idrica degli alimenti viene misurata in termini di “litri di acqua virtuale“, ovvero la quantità di acqua necessaria per produrre un determinato alimento. Ad esempio, per produrre un chilogrammo di carne bovina, è necessario utilizzare circa 15.000 litri di acqua virtuale, mentre per produrre un chilogrammo di frutta o verdura può essere necessario solo qualche centinaio di litri di acqua virtuale.
Secondo il metodo di analisi sviluppato dal Water Footprint Network, l’impronta idrica si articola in tre componenti qualitative: acqua blu, verde e grigia, ovvero
- La Water Footprint blu rappresenta il volume di acqua dolce prelevato dalla superficie e dalle falde acquifere, utilizzato e non restituito: si riferisce al prelievo di risorse idriche superficiali e sotterranee per scopi agricoli, domestici e industriali.
- La Water Footprint verde, invece, indica l’acqua piovana che evapora o traspira, nelle piante e nei terreni, soprattutto in riferimento alle aree coltivate.
- La Water Footprint grigia indica la quantità di risorse idriche necessarie a diluire il volume di acqua inquinata per far sì che la qualità delle acque, nell’ambiente in cui l’inquinamento si è prodotto, possa ritornare al di sopra degli standard idrici prefissati.
L’impronta idrica degli alimenti è importante perché l’acqua è una risorsa limitata e preziosa, sempre più sotto pressione a livello globale; la sua gestione sostenibile è essenziale per garantire la sicurezza alimentare e idrica a livello globale. Inoltre, la produzione di alimenti ad alta impronta idrica può contribuire ad aumentare il rischio di siccità, degrado del suolo, alla desertificazione, all’esaurimento degli acquiferi e alla riduzione della qualità delle acque, con perdita di biodiversità e conseguenti impatti negativi sull’ambiente e sulla salute umana. Inoltre, la produzione di alimenti con un’elevata impronta idrica può comportare una maggiore pressione sui sistemi idrici locali, aumentando il rischio di siccità, degrado del suolo e perdita di biodiversità.
L’impronta idrica degli alimenti può variare notevolmente a seconda del tipo di alimento, del luogo di produzione e delle pratiche agricole utilizzate. Ad esempio, la produzione di carne richiede molta più acqua rispetto alla produzione di frutta e verdura. Inoltre, la produzione di alimenti in zone con scarsità di acqua può essere più problematica rispetto a zone con abbondanza di risorse idriche.
La conoscenza dell’impronta idrica degli alimenti può aiutare i consumatori a fare scelte alimentari più sostenibili, scegliendo alimenti a bassa impronta idrica o riducendo il consumo di alimenti con un’elevata impronta idrica. Inoltre, la gestione sostenibile dell’acqua nella produzione alimentare può contribuire a ridurre l’impatto ambientale dell’agricoltura e della produzione alimentare sulla disponibilità di risorse idriche.
L’impronta ecologica (Ecological Footprint) è un indicatore complesso utilizzato per valutare il consumo umano di risorse naturali rispetto alla capacità della Terra di rigenerarle. Essa stima quanti ettari di bosco, terreni da pascolo, terreni coltivabili e mari siano necessari per rinnovare le risorse utilizzate e assorbire i rifiuti generati; consente pertanto di confrontare gli effetti del nostro consumo momentaneo con le risorse disponibili sulla terra. Per calcolare l’impronta ecologica si mette in relazione la quantità di ogni bene consumato con una costante di rendimento espressa in chilogrammi per ettaro. Il risultato che si ottiene è una superficie espressa con l’unità di misura di “ettaro globale”.
In poche parole, l’impronta ecologica serve sostanzialmente a capire di quanto spazio ha bisogno l’uomo per vivere nel modo in cui vive, consumando quanto consuma e producendo i rifiuti che produce in un determinato momento; allora, l’impronta ecologica ci dice che, allo stato attuale, abbiamo bisogno di poco più di 1,7 “Pianeti Terra” per conservare l’attuale consumo di risorse naturali.
Bisogna sottolineare che si tratta di una misurazione parziale, in quanto basata essenzialmente sulle emissioni di CO2, senza tenere conto di altri rifiuti, come le scorie radioattive ad esempio.
In generale, al crescere della complessità della filiera alimentare aumenta anche l’impatto ambientale. Al contrario, alimenti che necessitano di minime lavorazioni, come ortaggi o frutta, in genere hanno impatto minore. Ad esempio, l’analisi del ciclo di vita per un chilo di mele stima l’emissione complessiva di 200 g CO2 eq, che sale a 1.013 g CO2 eq per un chilo di pasta (a cui se ne sommano altri 730 in caso di cottura a gas e 1.950 in caso di cottura elettrica) e a 23.328 g CO2 eq per lo stesso quantitativo di carne (a cui aggiungerne da 460 a 2.990 per la cottura) (Barilla Center for Food e Nutrition – BCFN, 2016[2]).
[1] FAO and the Environmental Change Institute & The Oxford Martin Programme on the Future of Food, The University of Oxford. Plates, pyramids, planet. Developments in national healthy and sustainable dietary guidelines: a state of play assessment (2016).
[2] Barilla Center for Food e Nutrition. Doppia piramide 2016.