La logica delle disuguaglianze

Autonomia differenziata: uno strumento per sancire il divario Nord-Sud

Alle origini dei divari

La Questione Meridionale si può dire, senza timore di essere smentiti, è nata con l’Unità d’Italia, il 17 marzo del 1861, giorno in cui Vittorio Emanuele II veniva proclamato Re d’Italia dal primo parlamento nazionale, eletto, secondo la legge Piemontese (vedi in seguito), su una base rigidamente censitaria. Cavour venne a mancare meno di due mesi dopo, il 6 giugno del 1861: gli storici non sono certi della causa precisa, ma sembra si trattasse di complicazioni della malaria. Secondo alcune testimonianze abbastanza affidabili, le sue ultime parole furono: «l’Italia è fatta, tutto è salvo».  Ma quale Italia? A distanza di oltre 150 anni (162 per essere esatti) esistono due Paesi, non un’unica nazione, due Paesi molto diversi tra di loro, con divari profondi ed incolmabili.

Già al momento dell’unificazione, esistevano due realtà diverse con aspetti negativi e positivi in entrambe le macro-regioni Le condizioni sociali, economiche, culturali, linguistiche erano ben diverse: il nord vantava un più alto grado di industrializzazione e alfabetizzazione, grazie soprattutto alle influenze da parte delle altre nazioni europee; nel sud invece, privo d’un ceto imprenditoriale altrettanto consistente e dotato d’iniziativa, continuava a persistere una struttura economico-sociale di tipo semifeudale perpetuatasi nel tempo e una mentalità radicata nell’agricoltura, con le famiglie dei modesti lavoratori che non potevano permettersi di privarsi di un paio di braccia robuste per far andare il proprio figlio a scuola.

Intorno al 1860 l’economia del Sud Italia era ancora segnata dalla dominanza di strutture agrarie precapitalistiche (sopravvivenza del latifondo, prevalenza della cerealicoltura e del pascolo estensivi, mancanza di investimenti produttivi), decisamente meno progredite di quelle affermatesi quantomeno nelle aree più avanzate del Settentrione. L’inferiore sviluppo e la minore competitività della struttura manifatturiera meridionale impedirono al Mezzogiorno di prendere parte al processo di sviluppo industriale che il governo unitario promosse, gravando di pesanti dazi i manufatti d’importazione (in modo da dirigere i consumi privati verso quelli nazionali) e mantenendo elevate le spese militari e quelle funzionali alla realizzazione di infrastrutture (in modo da offrire agli imprenditori ampie opportunità di profitto tramite l’accaparramento delle commesse pubbliche). In conseguenza di ciò e di tali politiche il Sud Italia venne a sopportare soltanto i costi, rappresentati dalla lievitazione dei prezzi dei manufatti stranieri, dalla perdita di sbocchi esteri per l’agricoltura nazionale (causata dalle ritorsioni dei paesi colpiti dal protezionismo nostrano) e dal drenaggio da parte dello stato dei capitali presenti in tale comparto (realizzato attraverso l’esazione d’una pesante imposta fondiaria e la vendita dei suoli demaniali ed ecclesiastici) resosi necessario per far fronte all’espansione della spesa pubblica. Per il Mezzogiorno questa condivisione dei costi d’una politica di cui il solo Settentrione risultava beneficiario si tradusse di fatto nel finanziamento dello sviluppo del secondo da parte del primo.

Pertanto, il divario Nord-Sud è stato favorito, in primo luogo, dalle politiche economiche doganali, fiscali e spesa pubblica adottate ed imposte dai primi governi dopo l’unificazione del paese; questi furono capaci di produrre l’85 per cento dei presidenti del consiglio, tutti i prefetti e il 60 per cento dei vertici amministrativi; quei governi favorirono, tra le tredici regioni annesse dal Regno di Sardegna nel 1861, quelle più vicine ai confini militarmente più rilevanti per i Savoia e minarono civismo, capitale umano e crescita di quelle più distanti.

Sicché, come sostenuto da Servidio (2002) e Zitara (2011), l’economia meridionale fu scientemente penalizzata dal regime unitario, il quale avrebbe modulato la propria politica fiscale, di spesa pubblica, bancaria e industriale in maniera tale da privare il Sud delle sue risorse finanziarie e usarle per finanziare politiche di industrializzazione e infrastrutturazione del Nord Italia, nonché in modo da soffocare il suo apparato manifatturiero (e garantire così a quello settentrionale il controllo esclusivo del mercato nazionale). In quest’ottica l’unificazione del paese assume l’aspetto di un’operazione promossa dalle classi dirigenti settentrionali al fine di alimentare lo sviluppo delle proprie regioni tramite lo sfruttamento di un’area esterna aggregata ad esse alla stregua d’una colonia (ossia forzatamente e in posizione subordinata). Il fatto che un regime avente simili finalità abbia potuto contare sul consenso della classe dirigente meridionale oltre che di quelle settentrionali è spiegato con la capacità delle seconde di intessere alleanze con le componenti della prima estranee all’ambito imprenditoriale (ossia con quelle agrarie e intellettuali), offrendo loro l’accesso alla proprietà delle terre dello stato e della Chiesa (tramite la loro confisca e privatizzazione) e inedite possibilità di carriera in ambito burocratico (per effetto della costituzione d’un apparato amministrativo nazionale, dai ranghi assai più estesi rispetto a quello dello stato borbonico).

La “questione meridionale

Il termine “questione meridionale” venne usato per la prima volta in Parlamento nel 1873 dal deputato radicale lombardo Antonio Billia, per descrivere la disastrosa situazione economica che si era venuta a creare nel Mezzogiorno in seguito all’unificazione[1].

L’annessione del Regno delle due Sicilie al Regno d’Italia avvenne forzosamente e tale annessione provocò un milione di morti e venticinque milioni di migranti.

All’epoca, il Regno delle due Sicilie era un regno ricco, all’avanguardia e con un livello di benessere medio in linea con quello di altri Stati.

Il settore agricolo faceva da traino per l’economia dello Stato, dalle colture intensive delle pianure campane alla produzione di oli e grani di qualità che venivano poi venduti, attraverso il Banco di Napoli, nei principali mercati europei. Rilevanti erano anche le produzioni di agrumi siciliani, vite, mandorlo e fico. La produzione di vino, specialmente quello siciliano, godeva di importanti esportazioni verso il Regno Unito. Il governo borbonico sosteneva inoltre il settore industriale, sia attraverso l’impiego di misure protezionistiche che incoraggiando l’afflusso di capitali stranieri. Importanti stabilimenti industriali si collocavano in diverse zone del Regno: la fabbrica metalmeccanica di Pietrarsa, il cantiere navale di Castellammare di Stabia, la Fonderia Ferdinandea e il Polo siderurgico di Mongiana in Calabria. Per quanto concerne il sistema infrastrutturale il regno delle Due Sicilie seguì un percorso diverso rispetto al resto del Paese, preferendo dare priorità ai trasporti via mare, disponendo di un’importantissima marina mercantile, sia per numero di navi che per tonnellaggio, che era la seconda in Europa.

Il commercio e l’industria erano prevalentemente concentrate nelle zone costiere del Regno e riguardavano non soltanto l’altra sponda del Mediterraneo, ma anche rotte transoceaniche (specie verso l’Europa settentrionale). La scelta di favorire i trasporti via mare era anche motivata dall’arretratezza delle vie di comunicazione del Regno, un problema che si tentò di affrontare con ingenti somme di denaro durante il regno di Ferdinando II, ma che non furono in alcun modo sufficienti a mutare radicalmente lo stato delle infrastrutture.

Tuttavia il Regno delle Due Sicilie vantava un forte patrimonio culturale e una vita culturale ed artistica di prim’ordine. Il Real Teatro di San Carlo era tra i più magnificenti teatri del continente, le ricchezze archeologiche diedero vita ad uno dei musei archeologici più importanti del mondo (gli scavi di Pompei) e il Museo archeologico nazionale di Napoli. L’Università di Napoli era la più grande del Regno e si contraddistingueva per i suoi meriti scientifici. A Napoli fu istituita la prima scuola non militare di ingegneria italiana nella quale si formarono brillanti tecnici. Il Regno vantava inoltre diversi primati nel settore scientifico: il primo telegrafo elettrico italiano, il primo osservatorio astronomico italiano a Capodimonte ed il primo osservatorio vulcanico e sismologico del mondo (l’Osservatorio Vesuviano). Risulta quindi spontaneo chiedersi come e in che misura l’unificazione abbia avuto un impatto sulle condizioni socio-economiche del Mezzogiorno. Se i Borboni avevano adottato una politica protezionistica per difendere le industrie del Regno, la stessa politica non fu invece seguita dal neonato Stato italiano: le nuove leggi sulle tariffe doganali danneggiarono in modo significativo l’economia meridionale e, nel 1862, furono ufficialmente abolite le tariffe protezionistiche e, di conseguenza, la competitività delle industrie si ridusse considerevolmente. Basti pensare agli stabilimenti di Mongiana, che impiegavano millecinquecento persone e garantivano ghisa e acciaio per gli arsenali napoletani, che vennero chiusi in quanto considerati troppo a sud e quindi poco controllabili. L’eliminazione delle misure protezionistiche portò al fallimento gli opifici tessili a Napoli, Taranto, Otranto, Gallipoli e San Leucio (i cui telai furono poi portati a Valdagno dove nacque la prima fabbrica tessile veneta). Vennero chiuse le ferriere di Mongiana e la carterie di Sulmona. Gli appalti per i lavori pubblici vennero affidati ad imprese lombardo-piemontesi. Il debito pubblico sabaudo, risultato di una politica espansionista portata avanti da Cavour, doveva essere risanato: lo Stato sabaudo era il più indebitato d’Europa. Il sistema monetario sabaudo prevedeva emissione di carta moneta, senza rispettare però la convertibilità della moneta: ad ogni lira di carta piemontese non corrispondeva un valore in oro equivalente presso l’istituto bancario emittente. Come conseguenza la valuta piemontese era molto più debole di quella borbonica: il sistema borbonico prevedeva invece l’emissione di monete d’oro e d’argento e le cosiddette “fedi di credito” (assegni circolari) ai quali corrispondeva però il controvalore in oro nelle casse del Banco delle Due Sicilie. Al momento dell’unificazione il denaro circolante nel Regno delle Due Sicilie ammontava a circa cinquecento milioni di monete d’oro e d’argento, il valore più alto rispetto agli altri Stati preunitari e pari al 66% della moneta circolante nella penisola (ed aveva un debito pubblico irrisorio).


Computo delle ricchezze dei diversi Stati Italiani al momento dell’unificazione

STATI ITALIANI                                                                                       Milioni di Lire oro

  • Regnodelle due Sicilie: 443.2 (66,43%)
  • Toscana:  84.2 (12,62%)
  • Romagna, Marche e Umbria: 55.3 (8,29%)
  • Piemonte, Liguria e Sardegna: 27.0 (4,05%)
  • Veneto: 12.7 (1,90%)
  • Lombardia: 8.1 (1,21%)
  • Parma e Piacenza: 1.2 (0,18%)
  • Ducato di Modena: 0.2 (0,03%)

(da Francesco Saverio Nitti in “ScienzadelleFinanze” e in “Nord e Sud“; da Harold Acton: Gli ultimi Borboni di Napoli – Aldo Martello Ed., Milano, pag. 2)

In seguito all’unificazione fu impedito al Banco delle Due Sicilie di accumulare le proprie monete presenti nel mercato per trasformarlo poi in carta moneta poiché, così facendo, avrebbe controllato interamente il mercato finanziario italiano. Il quantitativo di oro finì nelle casse piemontesi e la forte moneta borbonica venne rimpiazzata da quella piemontese. Il Banco di Napoli vide le proprie risorse decimarsi, mentre la Banca di Sardegna aumentava i propri fondi da ventisei a centocinquantasette milioni di lire. Aumentò in maniera vertiginosa la pressione fiscale sul Mezzogiorno, sia per risanare i debiti contratti dal governo sabaudo nella fase antecedente all’Unità sia per far fronte alle spese legate alla corsa agli armamenti. Vennero introdotte imposte sulla proprietà fondiaria altamente squilibrate. La riforma del 1864 fissò, infatti, un “contingente” di 125 milioni da raccogliere per il 10 per cento dall’ex Stato pontificio, per il 40 per cento dall’ex Regno delle Due Sicilie e per il 21 per cento (29 per cento) dall’ex Regno di Sardegna (resto del Regno d’Italia). Date le differenze tra i catasti regionali e la conseguente impossibilità di stimare la redditività agraria, queste politiche fiscali, insieme alla mancanza di un efficiente sistema bancario, ebbero conseguenze estremamente negative sugli investimenti privati delle regioni annesse, nonostante la perequazione avviata nel 1886.

In ambito amministrativo il neonato governo italiano scelse la strada del centralismo statale, ignorando le peculiarità regionali per proteggere l’unificazione e rischi di secessione da parte delle popolazioni appartenenti ai precedenti regni. La decisione di impiegare funzionari piemontesi fu spesso mal tollerata nei restanti territori del Regno d’Italia: le tradizioni amministrative e la cultura giuridica dovevano lasciare spazio al rigido formalismo sabaudo.

Il sistema tributario sabaudo fu esteso al Mezzogiorno, che come ricordato in precedenza godeva di una pressione fiscale molto contenuta, provocando un aumento delle imposte del 32%. Alla morte di Cavour (6 giugno 1861), Bettino Ricasoli decise di estendere all’intero regno l’ordinamento piemontese, con la conseguente fine delle organizzazioni amministrative degli altri Stati preunitari, attraverso quella che viene comunemente definita la “piemontizzazione” del Paese. Le realtà meridionali si trovarono costrette ad applicare leggi e ordinamenti totalmente estranei alle loro tradizioni e al loro carattere: i piccoli centri siciliani e calabresi erano governati dalle stesse leggi in vigore nel resto del Paese. Cavour era originariamente favorevole ad un decentramento, ma cambiò progressivamente posizione, diventando centralista, per sventare il rischio che nel meridione si affermassero movimenti rivoluzionari che avrebbero messo a repentaglio l’unificazione. Le aspettative di chi aveva accolto la spedizione dei mille furono amaramente frustrate: gli strati meno abbienti della società avevano sperato in un miglioramento delle loro condizioni di vita, ma si videro costretti a sostenere maggiori tasse e a prestare servizio di leva, riducendo conseguentemente la forza lavoro per ogni nucleo familiare. Il fenomeno del brigantaggio fu incentivato dalla povertà e dalla fame, nonché dalla volontà di sottrarsi all’obbligo di leva. Nitti scriveva: “per il cafone non c’è alternativa, o brigante o emigrante”.

Nel 1864 il debito pubblico ammontava a oltre duemila milioni di lire, oltre la metà derivante dalle guerre d’indipendenza e dalle opere infrastrutturali dei governi Cavour; a tal riguardo il Ministro delle Finanze Bastogi reputò necessario varare una serie di misure volte ad aumentare il carico fiscale: il tributo sulla ricchezza mobile e la tassa sulla macinazione dei cereali (anche detta “tassa sulla miseria”). Coloro che provvedevano al proprio sostentamento principalmente attraverso la produzione di cereali si videro chiedere due lire per ogni quintale di grano e una lira per ogni quintale di granoturco e segale. I tumulti che seguirono all’approvazione della legge provocarono la morte di duecentocinquanta persone e mille feriti.

Ad aggravare le difficoltà del neonato Regno d’Italia ci furono difficoltà di cui le classi dirigenti non tardarono ad accorgersi: l’italiano era parlato solo dalla minoranza istruita del Paese e, prima dell’unificazione, esistevano diversi Stati regionali con leggi e regolamenti non uniformi.

Mentre nel Settentrione si affermava un fiorente settore manifatturiero, il connubio tra limitata spesa pubblica e alta tassazione compromise, nel resto della penisola, l’agricoltura orientata all’esportazione, il settore industriale e la relazione stessa tra cittadini. La riforma protezionista del 1887 non salvaguardò l’arboricoltura meridionale schiacciata dal declino dei prezzi internazionali degli anni Ottanta, ma protesse le industrie tessili e siderurgiche settentrionali sopravvissute al periodo liberista grazie alle commesse statali.

Una logica simile guidò, poi, le bonifiche agrarie, l’assegnazione del monopolio del conio alla piemontese Banca Nazionale, l’affidamento dei monopoli nella costruzione di navi a vapore alle genovesi Rubattino e Accossato-Peirano-Danovaro e, soprattutto, la spesa pubblica nella rete ferroviaria, che rappresentò il 53 per cento del totale tra il 1861 e il 1911.

Durante il governo Giolitti furono privilegiate le industrie presenti nel Nord del Paese mentre il Mezzogiorno veniva marginalizzato nella sua sfera agricola, abbandonando i piani industriali iniziati nell’era borbonica. I braccianti meridionali, come su esposto, avevano sperato in una riforma agraria che non ci fu. La leva obbligatoria, l’aumento delle imposte e l’abolizione del diritto di legnatico, di pascolo e di foraggio provocarono un importante impoverimento dei contadini meridionali. Il fenomeno del brigantaggio nacque, in un primo momento, come una protesta sociale da parte di quel mondo contadino ancora nostalgico dell’era borbonica, ma ben presto si allargò a fasce più estese della popolazione. Lo Stato reagì abbracciando un modello amministrativo dirigista in cui le autonomie locali erano sottoposte al rigido controllo del governo. A ciò si aggiunse lo scioglimento dell’esercito borbonico e garibaldino che causò l’entrata di migliaia di soldati nelle fila dei briganti. Diversi scontri e ribellioni popolari scoppiarono nelle regioni meridionali fin dall’anno dell’unificazione. Nell’agosto del 1861 il generale Cialdini fu inviato a Napoli, dopo aver ottenuto pieni poteri per sedare le rivolte e fronteggiare l’emergenza del brigantaggio postunitario. L’intervento provocò migliaia di feriti e altrettante di fucilati. Gli scontri nel periodo che va dal 1861 al 1870 andarono via via aumentando e fu necessario l’invio di centoquarantamila militari, l’approvazione della Legge Pica (sospensione dei diritti civili) e l’esercizio del diritto di rappresaglia sulla popolazione civile. Fu istituita a Torino una Commissione d’inchiesta sul brigantaggio. Le disparità e diseguaglianze erano evidenti. I meridionalisti, da Einaudi a Salvemini e, in seguito, Gramsci e Sturzo, ritenevano la politica protezionista inadatta a promuovere uno sviluppo economico armonico e omogeneo, bensì uno strumento per favorire l’industrializzazione del Nord a danno e a spese del meridione.

Un chiaro “esempio” di liberalismo e democrazia fu l’iter per consentire ai cittadini del Regno di esprimere la propria volontà e scelta dei rappresentanti nel Parlamento[2]. Inizialmente fu semplice estendere a tutto il Regno la legge elettorale che concedeva il diritto di voto ai cittadini di sesso maschile di almeno 25 anni che sapessero leggere e scrivere, che godessero dei diritti civili e politici e che pagassero un censo di imposte dirette non inferiore alle 40 lire. Così veniva completamente ignorata la costituzione del corpo elettorale meridionale che non possedeva detti requisiti; il risultato fu che alle prime elezioni politiche del 1861, furono iscritti solo 418.696 cittadini, pari all’1,89% della popolazione italiana; e questo bastò. Vent’anni dopo, nel 1880, gli elettori furono soltanto 621.896, pari al 2,2% della popolazione totale. La riforma elettorale, varata dopo lunghe discussioni parlamentari con le leggi del 22 gennaio e del 7 maggio 1882, allargava il diritto di voto ai cittadini italiani di sesso maschile che avessero compiuto il ventunesimo anno d’età, sapessero leggere e scrivere, avessero superato l’esame di seconda elementare, o in alternativa, pagassero annualmente un’imposta diretta di almeno 19,80 lire. La nuova legge elettorale, infine, abbassò il limite di età da 25 a 21 anni e pose come requisito essenziale per esercitare il diritto di voto la capacità e non il censo. Quest’ultimo, inoltre, venne abbassato da 40 a 19.80 lire. Ciò consentì un notevole allargamento del corpo elettorale, che passò nel 1882, in occasione delle prime elezioni indette con la nuova legge, a oltre due milioni di cittadini (2.017829), pari al 6,9% della popolazione totale, permettendo a una parte della classe operaia di partecipare alle elezioni.

La nuova legge, tuttavia, continuava ad escludere dal voto gli analfabeti e i nullatenenti, oltre che le donne: le città e il Nord furono in sostanza favoriti rispetto alle campagne e al Sud, dove l’analfabetismo e la povertà erano più diffusi.

Il suffragio universale, richiesto soprattutto da radicali, repubblicani e socialisti, ma anche da cattolici e liberali di Destra, che speravano che il voto dei contadini analfabeti garantisse la conservazione sociale, venne respinto dalla Camera nel giugno del 1881. Solo nel 1912 una nuova legge elettorale, promulgata da Giovanni Giolitti, avrebbe concesso agli analfabeti il diritto di voto, purché avessero compiuto 30 anni o prestato il servizio militare.

Nell’analisi meridionalista non si può dimenticare la sopraccitata figura di Francesco Saverio Nitti che condusse la prima indagine approfondita e sistematica delle modalità di ripartizione fra Nord e Sud del carico tributario e della spesa pubblica,  giungendo alla conclusione che nel primo quarantennio di vita dello stato nazionale il Sud avesse subito sotto entrambi i profili una forte penalizzazione, che aveva determinato un cospicuo trasferimento di risorse da questa parte del paese a quella settentrionale, impoverendo la prima e consentendo un’accelerazione dello sviluppo della seconda.

Nitti, non negando gli svantaggi che la politica protezionista aveva portato all’economia meridionale, sosteneva che era una scelta obbligata per il raggiungimento del superiore interesse della collettività nazionale e, nel lungo periodo, del Mezzogiorno. Nitti esprimeva l’esigenza di occuparsi del divario fra le due aree del Paese attuando un coraggioso programma di sviluppo delle infrastrutture, controllo delle acque, elettrificazione e industrializzazione: bisognava procedere all’industrializzazione del Mezzogiorno. Veniva insomma chiesta l’approvazione di una legislazione speciale per promuovere lo sviluppo industriale delle aree del Sud e modificare gli effetti distorsivi della legislazione ordinaria. Nel 1903, sul totale dei lavoratori dell’industria il 57% era concentrato nelle regioni settentrionali mentre soltanto il 25% viveva nel meridione (la cui popolazione era pari al 37% di quella nazionale). Nello stesso anno Giolitti venne chiamato alla guida del governo in seguito alle dimissioni di Zanardelli e l’anno seguente furono varate le prime importanti “leggi speciali” per il Mezzogiorno: per la Basilicata e per Napoli, volte ad incoraggiare la modernizzazione dell’agricoltura e, per quanto concerne Napoli, lo sviluppo industriale tramite stanziamenti ed agevolazioni fiscali. Seguirono provvedimenti analoghi per le isole e la Calabria che avevano però il limite di non incidere in modo significativo sulla struttura sociale del Mezzogiorno. Di maggior impatto fu la costruzione dell’acquedotto pugliese e della direttissima Roma-Napoli. Tra le varie critiche che piovvero su Giolitti ci fu quella dei meridionalisti, fra cui spicca Salvemini, che accusavano la politica economica governativa di aver favorito e protetto le “oligarchie operaie” del Nord, ostacolando lo sviluppo delle migliori forze produttive nel Mezzogiorno.

Agli inizi del Novecento il divario fra le due aree del Paese aveva assunto dimensioni drammatiche. Il miglioramento più incisivo si verificò nel 1912 con l’estensione della rete ferroviaria meridionale (all’indomani dell’unificazione esistevano cento km di ferrovie nel Sud e circa duemila km nel Nord). Importanti distanze riguardavano inoltre altri rilevanti aspetti della vita civile, innanzitutto quello dell’alfabetizzazione: nel 1911 il 59% della popolazione meridionale era analfabeta mentre nel Nord del Paese tale percentuale era di circa la metà. Nel 1861 le due economie erano prevalentemente agricole e con livelli di produttività simili. Nel 1910 la produttività delle regioni settentrionali era nettamente superiore a quella del Mezzogiorno. Il nord vedeva la nascita di un sistema industriale moderno, inesistente nel 1861 e lo sviluppo di una realtà industriale importante nel triangolo Milano-Genova-Torino. Le colture del mezzogiorno pagavano lo scotto della guerra commerciale con la Francia e la concorrenza dei prodotti provenienti da altri Paesi mediterranei.

Oltre quattro milioni di meridionali emigrarono verso l’esterno nei primi quindici anni del Novecento, prevalentemente verso il continente americano. Una buona parte della produzione industriale settentrionale finiva nel mercato delle regioni meridionali, favorendo indubbiamente lo sviluppo del Nord del Paese, ma lasciando di fatto immutato il divario fra le due aree. Agli occhi di molti meridionalisti queste opere, piuttosto che un tentativo di porre rimedio agli squilibri generati dalle politiche fiscali e protezioniste varate in seguito all’unificazione, sembravano piuttosto un mezzo per ottenere consenso sociale. I contenuti benefici della legislazione speciale devono altresì essere ascritti alla quantità di risorse impiegate, alla scarsa efficacia dei singoli provvedimenti e all’esigua capacità di applicazione da parte delle classi dirigenti locali e nazionali.

La prima guerra mondiale provocò un aumento del dislivello fra le due aree del Paese: le industrie belliche erano localizzate prevalentemente nelle regioni settentrionali e il Mezzogiorno si vide costretto a farsi carico degli oneri derivanti dal dissesto delle industrie belliche. Il salvataggio della Banca di Sconto, che aveva finanziato l’impresa bellica, nonché la ristrutturazione industriale iniziata dopo la crisi del 1929, gravarono ulteriormente sull’economia del Mezzogiorno. L’inflazione postbellica e il blocco dell’immigrazione deciso dal governo degli Stati Uniti incisero notevolmente sulle condizioni del Mezzogiorno: le rimesse degli emigrati avevano rappresentato un fattore chiave nel riequilibrare il rapporto tra popolazione e risorse.

La politica demografica del fascismo portò ad un aumento della popolazione che non fu però accompagnato da un incremento del reddito pro-capite e lo squilibrio territoriale fra le due aree del Paese non si attenuò durante il Ventennio. La guerra aveva indubbiamente rafforzato la preminenza dell’industria del Nord: le industrie meridionali erano dedite principalmente alla trasformazione di prodotti agricoli e della pesca e continuavano ad accusare ritardi importanti in altri settori industriali (basti pensare alla produzione di acciaio che, nel 1948, vedeva il Nord fornire oltre il 90% della produzione nazionale).

Nella fase della ricostruzione, oltre al varo della riforma agraria, fu istituita la Cassa per il Mezzogiorno (1950) per la gestione di fondi straordinari per promuovere lo sviluppo del Sud Italia. Tali risorse avevano come obiettivo la realizzazione di bonifiche, opere pubbliche, irrigazioni e lo sviluppo delle infrastrutture (da sempre e tutt’oggi elemento penalizzante per il Mezzogiorno). L’idea ispiratrice di una legislazione speciale per il Sud, come già detto, non era una novità.

Negli anni cinquanta del Paese si verificò però una nuova ondata migratoria dal Mezzogiorno, questa volta dirette nelle regioni del Nord Italia, attratta dal boom industriale e dall’apertura dei mercati europei: fu il canto del cigno della società contadina meridionale. Tali politiche non provocarono una riduzione del divario – vista la crescita del Nord del Paese- ma in termini assoluti invertirono la tendenza recessiva della prima metà del Novecento.

Importante fu inoltre la legge sulle aree e sui nuclei industriali del 1957 che introdusse finanziamenti e sgravi di natura fiscale per le piccole-medie imprese, nonché l’obbligo per le imprese a partecipazione statale a collocare nel Mezzogiorno il 60% dei loro nuovi impianti.

o-o-o-o-o

Concludo questo scritto con una breve riflessione sull’attuale momento storico. Dopo quanto detto sui divari Nord-Sud, davvero si può credere che l’autonomia differenziata possa risolvere i problemi che da secoli affliggono il Mezzogiorno e che trovano, come mandanti e conniventi, i Governi e la classe dirigente settentrionali da una parte ed una classe dirigente incapace e ignava meridionale dall’altra? E’ chiaro ed evidente che la nuova proposta legislativa è solo un pretesto per ratificare e sancire, ovvero “legalizzare” una realtà inaccettabile ma sotto gli occhi di tutti. Come si fa ad ignorare che il Mezzogiorno è tra le cause principali della riduzione della competitività internazionale del nostro Paese, laddove potrebbe essere una fonte enorme di risorse. Pensare allora di affrontare i problemi dell’Italia ignorando il Mezzogiorno è insensato e controproducente per l’intera nazione.

Sicché, mentre in Europa si propende a creare direttive comuni per tutti i Paesi membri e omogenizzare le varie legislazioni, in Italia si intraprende un percorso inverso con la cosiddetta “autonomia differenziata”, volta a far riconoscere alle regioni, anche a quelle speciali, una sostanziale autonomia in molte materie, alcune delle quali oggi di esclusiva competenza dello Stato. E’ questa una proposta che se approvata rischia di far compiere all’Italia un grande passo indietro, un ritorno al passato in cui il Paese era diviso in stati e staterelli, ognuno con le proprie norme in cui il cittadino doveva barcamenarsi per risolvere i propri problemi. Altro che serie A o serie B, ma anche serie C, serie D e via dicendo. Da un lato si lavora per creare gli Stati Uniti d’Europa con norme uguali per tutti e dall’altro lato, in Italia, si propende per accentuare divisioni, soprattutto economiche, riproponendo con forza e attualità la questione meridionale, addirittura con un ritorno alle infauste “gabbie salariali” con stipendi e salari diversificati, a parità di lavoro prestato.

Allora l’autonomia differenziata non aiuterà affatto lo sviluppo della nazione, ma perpetuerà e consoliderà – ope legis – quella marcata differenza tra regioni, lasciando ancora più indietro il Meridione d’Italia. Nonostante le varie rassicurazioni di politici nordisti, l’applicazione pratica della legge finirà per aumentare i divari già esistenti tra Nord e Sud, come se questi non bastassero.

La realtà è piuttosto inquietante: oggi nascere a Reggio Calabria o a Bologna cambia la vita.

Bugie o incoerenza?

“Noi vogliamo unire l’Italia e garantire a tutti i cittadini, indipendentemente da dove vivono e lavorano, lo stesso diritto ad accedere ai servizi in maniera semplice e veloce … Non ci rassegniamo all’idea che ci siano cittadini di serie A e cittadini di serie B, territori e servizi di serie A e territori e servizi di serie B: vogliamo una sola Italia con servizi e diritti uguali per tutti.  Una sola Italia in cui lo Stato e le sue articolazioni si mettono al servizio dei cittadini invece di considerare che i cittadini siano al servizio, che non si arrende allo spopolamento delle aree interne e nella quale nessuno possa sentirsi escluso o figlio di un Dio minore, che lavora insieme per essere più moderna e sostenibile”.

Queste parole sono state pronunciate a Roma, in data 30 Gennaio 2023, dalla Presidente del Consiglio, On.le Giorgia Meloni, intervenendo alla presentazione del “Progetto Polis” di Poste italiane, alla Nuvola, all’Eur, davanti a circa 7mila primi cittadini.

In contemporanea, l’On.le Roberto Calderoli – ministro sempre del Governo Meloni – ha presentato in Consiglio dei Ministri la «legge di attuazione» dell’art. 116.3[3]sull’autonomia differenziata. “Obiettivo è remare tutti in stessa direzione”, aveva appena detto la Meloni.

Prof. Giuseppe Castello

Giuseppe Castello è nato a Caposele [AV] il 06 agosto 1949. Ha studiato Medicina & Chirurgia presso l'Università degli Studi di Napoli dove si è laureato nel 1974. Leggi di più...

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