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Crollo del potere d’acquisto in Italia

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Il Rapporto Annuale Istat 2024 certifica che l’Italia riesce a recuperare il livello di produzione pre-Covid e anche quello precedente alla crisi del 2008, ma il potere d’acquisto dei salari in dieci anni crolla del 4,5%. L’Istat nel suo report annuale parla di un impoverimento generalizzato, che ha però colpito soprattutto le fasce meno abbienti.

L’analisi dell’ISTAT evidenzia come gli italiani siano sempre più poveri e anziani. Cresce la forbice, anche a causa dell’inflazione, tra le famiglie benestanti e quelle che fanno fatica ad arrivare alla fine del mese. Negli ultimi 20 anni il nostro Paese ha accumulato ritardi sul volume di Pil rispetto alle principali economie europee mentre le retribuzioni hanno perso potere d’acquisto

Le persone in povertà assoluta sono 5,75 milioni, pari al 9,8% della popolazione, la percentuale più alta registrata negli ultimi 10 anni. Sono poveri in percentuale soprattutto i minori (il 14% del totale) con un tasso che è quasi triplo rispetto alla fascia tra i 65 e i 74 anni (al 5,4%), dato legato anche alla caduta del potere d’acquisto delle retribuzioni a fronte della crescita dei prezzi

Negli ultimi 10 anni le retribuzioni lorde reali hanno perso il 4,5% del potere d’acquisto ed è cresciuto il fenomeno dei “working poor”, ovvero delle persone che pur lavorando rientrano nella povertà assoluta. La povertà è legata non solo al proprio reddito ma anche alla consistenza della famiglia e al luogo in cui si abita. In un periodo di alta inflazione, poi, il lavoro autonomo ha retto meglio di quello dipendente.

“Il reddito da lavoro – scrive l’Istat – ha visto affievolirsi la sua capacità di proteggere individui e famiglie dal disagio economico. Tra il 2014 e il 2023 l’incidenza di povertà assoluta individuale tra gli occupati è passata dal 4,9% nel 2014 al 7,6% nel 2023. Per gli operai l’incremento è stato più rapido passando da poco meno del 9% nel 2014 al 14,6% nel 2023”. Nel 2023 l’8,2% dei dipendenti era in povertà assoluta a fronte del 5,1% dei non dipendenti.

La cosiddetta “tassa dell’inflazione” colpisce soprattutto le famiglie meno abbienti, perché queste ultime dedicano una quota di spesa maggiore ad alcune categorie di beni e servizi – come i consumi alimentari – i cui prezzi sono cresciuti di più.

Il Corriere della Sera cita un’analisi pubblicata lo scorso luglio dagli economisti di Allianz Trad, che evidenzia un paradosso: la spesa per i beni non durevoli, come gli alimentari, ha raggiunto una riduzione importante (-2% in Italia, fino a -7% in Germania). Al contrario, i volumi di acquisto di beni durevoli (automobili, elettronica di consumo) o semi-durevoli (abbigliamento, giocattoli, beni culturali) hanno continuato a crescere nonostante l’impennata del costo della vita e dei servizi. Secondo Allianz, le famiglie più povere sono esposte in modo sproporzionato all’aumento del cibo (+17% su base annua) e delle utenze (affitti, acqua, luce). Al contrario, ristoranti, beni ricreativi, abbigliamento e trasporti, che hanno un peso maggiore nei consumi delle famiglie più ricche, hanno visto comparativamente minori aumenti dei prezzi. Quindi l’inflazione induce le famiglie meno abbienti a ridurre tutto, comprese le spese essenziali (che infatti hanno registrato una riduzione d’acquisto, come detto sopra). E infatti, prosegue l’Istat, l’inflazione ha penalizzato soprattutto le famiglie più povere: tra il 2014 e il 2023, la spesa equivalente delle famiglie è diminuita nel complesso in termini reali del 5,8%. Ma per le famiglie del primo quinto della distribuzione è diminuita dell’8,8% mentre per quelle del quinto più ricco è scesa appena del 3,2%.

“L’impoverimento, spiega l’Istituto, è stato generalizzato” ma, “il calo è stato più forte per le famiglie dei ceti bassi e medio-bassi, appartenenti al primo e al secondo quinto della distribuzione”.

Fonte: Rapporto Annuale 2024. La situazione del Paese”. https://www.istat.it/it/archivio/296796

 

Redazione amaperbene.it

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