Fravaglie
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Fragàglia [dal lat. frangere «spezzare»] è un termine usato nell’Italia meridionale per indicare, in senso collettivo, i giovani pesci di una determinata specie (fragaglia di triglie, di sarde, di alici), o anche l’insieme di novellame di specie diverse, che è messo in vendita così mescolato, adatto soprattutto per fritture.
Il termine fragàglia deriva dall’incrocio tra il latino medioevale “friccalhia” (da “frico” e “frigo”, “squamare” e “arrostire”) e il verbo “frangere”, fare a pezzi.
La fragaglia di triglie fritte (o ‘e fravaglie ‘e triglie, in dialetto) è uno dei patti più caratteristici e più saporiti della cucina napoletana, vuoi come cuoppo fritto di fragaglia di triglie, vuoi come un secondo semplice e sfizioso, come antipasto, finger food, apericena gradito a tutti, ottimo comunque, dovunque e a qualunque ora, un piatto più facile a farsi che a spiegarsi, davvero facilissimo. Da mangiare caldissima e con solo un pizzico di sale (e uno spicchio di limone).
Si tratta della famosa frittura di triglie, piccoli pesci di scoglio dal colore rossastro e dal sapore unico. Essendo di piccola taglia, le triglie devono pulite con delicatezza facendo attenzione a non romperle. Il segreto per la buona riuscita della frittura è sicuramente l’acquisto di pesce fresco di giornata, ma anche l’infarinatura che rende le triglie croccanti e prelibate. Un secondo piatto gustoso e facile da preparare, perfetto per una cena a base di pesce. Ecco la ricetta tradizionale proposta da “La cucina napoletana” a cura di Eduardo Estatico e Gerardo Gagliardi riportata da NapoliToday.
- Ingredienti per 4 persone:
- 1 kg di triglie
- 200 gr di ghiaccio
- 100 ml di acqua
- 350 gr di farina 00
- 2 limoni
- Sale
- pepe
Per friggere: 1 l di olio di semi di arachidi
Procedimento: Prendete dei fragagli di triglia freschissimi; lavateli in acqua corrente delicatamente, e liberateli deventuali filamenti di alghe o residui di pesca. In un recipiente mescolate l’acqua con il ghiaccio e unite 300 gr di farina creando una pastella. Pulite le triglie squamandole ed eviscerandole ma senza eliminare la testa. In una pentola portate a 160°C l’olio. Passate velocemente le triglie prima nella restante farina e poi nella pastella. Immergete nell’olio caldo e friggete fino a quando non saranno dorate e croccanti. Salate e pepate, e servite con spicchi di limone.
Le triglie non hanno goduto sempre di una buona sorte. Nell’antica Roma le triglie non venivano mangiate ma erano considerate un prodotto ornamentale molto costoso. L’ insieme di colori sgargianti della triglia ed il fatto che il pesce cambia colore nel momento del suo trapasso, tant’è che essi venivano venduti vivi e fatti morire davanti agli occhi dei clienti, non hanno certo contribuito a farli amare.
Platone comico (poeta comico greco del sec. V-IV a. C.) sosteneva che la triglia, sacra alla dea Artemide, spegne gli ardori e affloscia, come dire, le membra, e Matrone, autore di parodie sgangherate, chiamò la triglia “domatrice di cavalli”, in quel senso là, e cioè che “ammoscia” e rende “loffio” perfino un giovane cavallo da combattimento. Un medico greco, di cui non si conosce il nome, ebbe pietà del “barbuto” pesce, e argomentò che chi mangia triglie, o beve il vino in cui sia stata affogata una triglia, incomincia a odiare Bacco, e cioè diventa astemio, ma non Venere. Sulla fine del ‘500 Castore Durante sentenziò che i Greci avevano ragione, la triglia “ammosciava”, e a chi ne mangiava troppe si indeboliva anche la vista: e forse da qui nacque il detto “occhio di triglia”, a indicare quello smarrirsi trasognato del nostro sguardo che si fa languido quando si posa sulla radiosa bellezza di una Venere terrena. Ma il Durante, costretto forse dai pescivendoli che vendevano triglie, sostenne che quel pesce un pregio l’aveva: era un rimedio magico contro i veleni, anche i veleni più neri, quelli preparati da streghe e fattucchiere. Questo pregio “notturno” e il fatto che nel nome del pesce c’era un riferimento al numero “tre” spiegano perché i Greci consacrarono la triglia ad Artemide, dea anche della Luna, e dunque a Ecate, la “dea della triplice forma”, che regnava anche sulle tenebre dell’aldilà: Plutarco, Egesandro e Eliano raccontano che a Delfi una triglia era portata in processione durante la festa in onore di Artemide, e che gli iniziati ai misteri di Eleusi e la sacerdotessa di Era nel santuario di Argo si astenevano dal cibarsene.
Poi venne G. Gioacchino Belli e rimise le cose a posto. La “triglia” diede il suo nome all’organo sessuale maschile, e in un celebre sonetto il poeta chiede a una ragazza di fargli “un po’ de loco” nel suo letto: “nun te ne pentirai, perché io so’ cuoco / e in ner tegame assaggerai ‘na trija, / scojonata per te, grossa e vermija”. Il senso non richiede interpretazione.
I Napoletani diedero ragione a Belli, e aggiunsero alla letteratura sulla triglia una distinzione tra “triglia di scoglio”, “triglia di lota”, e cioè catturata nella melma dei fondali, e “triglia del Granatello[1]”, che i ristoratori dell’Ottocento consideravano la più gustosa. I Napoletani fecero notare che un pesce barbuto, vermiglio e dallo sguardo insidioso non può suggerire immagini di fiacchezza e di tenebre. Un pesce così incarna la forza. E “tregliuto” significò “gagliardo” e un colpo forte, “’na mazzata” si chiamò “tregliata”.
Recentemente poi il “cuoppo di triglie” è divenuto tra gli street food uno dei preferiti, da mangiare da soli o in compagnia.
Alla triglia sono legati anche alcuni “detti”. Famoso il ritornello introdotto da Pappagone (maschera interpretata da Peppino de Filippo): “Aglio, fravaglie, fatture ca nun quaglie, corna, bicorna, cape ‘e alice e cape d’aglio”.
Un modo di dire è quello che afferma “so’ fravaglie ‘ e treglia”, per indicare un qualcosa di scarsa importanza o un qualcuno da cui ci si aspetta molto, ma che nei fatti delude.
[1] Granatello è un piccolo porticciolo sul quale si affaccia la città di Portici. Il nome deriva dal fatto che nel Settecento sul posto erano presenti molte piante di melograno; la storia del Granatello si incrocia con quella della Reggia di Portici.