Cenni di storia del pane
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Il pane ha origini antichissime, difficili da ricostruire e si perdono nel lontano periodo neolitico. Antiche testimonianze riportano che l’homo sapiens fosse già capace di preparare un impasto costituito da ghiande tritate con acqua, che, steso su una lastra rovente dava un prodotto paragonabile ad una specie di focaccia dura e non lievitata. In seguito sostituì le ghiande con farina ottenuta da cereali macinati tra due grosse pietre…..Probabilmente il primo pane dell’uomo è stata una focaccia non lievitata, fatta di farina di un qualunque cereale, impastata con l’acqua e cotta probabilmente sopra i sassi caldi.
La coltivazione, a scopo alimentare, del frumento sembra sia iniziata circa 11.000 anni fa in un’area geografica che abbracciava Egitto, Turchia, Palestina, Siria e Iraq. Verosimilmente, il primo cereale convertito in pane è stato l’orzo, forse la più antica graminacea, e poi il miglio. Pure la segale, altro cereale con buone caratteristiche pacificatorie, era già conosciuta, insieme all’avena, all’età del bronzo (3.500 anni fa). Successivamente il frumento, avendo caratteristiche intrinsecamente congeniali alla panificazione di qualità, si è imposto. I chicchi ottenuti venivano pressati tra due pietre e la farina veniva mescolata con acqua per preparare una pappa cruda molto nutriente. La scoperta del pane, con molte probabilità, avvenne in modo casuale quando, lasciata la poltiglia di cereali vicino al fuoco, ci si accorse che si induriva cambiando sapore.
Scavi archeologici e incisioni rupestri testimoniano l’esistenza di pane (non lievitato) già circa 10.000 anni fa. Del resto, già nella Mesopotamia del 7000 a.C. si attesta la presenza delle prime macine per il frumento e, quindi, la produzione di farina, che veniva poi impastata con acqua e cotta sul fuoco.
Le prime tecniche di lievitazione sembrano tuttavia appartenere agli antichi Egizi (verso la metà del II millennio a.C.), quando si accorsero che, lasciando l’impasto a riposo, il pane era più soffice e buono da mangiare; in altri termini, inconsapevolmente avevano scoperto la lievitazione naturale. Gli Egizi segnarono anche la prima grande rivoluzione mettendo a punto dei forni in cui cuocere le pagnotte a temperature maggiori e scoprendo la magica trasformazione del glutine che si trasformava lasciando la farina a contatto con l’acqua; sempre gli Egizi furono i primi a considerare la panificazione come un’arte e, in particolare, la lievitazione come un fenomeno sacro e quasi magico, spesso rappresentato nei geroglifici e nelle tombe. Certo è anche che gli Egizi, oltre i primi forni, definirono compensi per chi lavorava alla costruzione delle piramidi usando piccole forme di pane quale moneta. Così, per la prima il pane veniva ad acquisire un valore, oltre che da un punto di vista nutrizionale pure da quello economico.
Dall’Egitto, le tecniche di preparazione e cottura del pane arrivarono ai Greci che dipinsero sui loro forni facce di demoni per tener lontani coloro che volevano provare ad aprirli. I greci cominciarono anche ad introdurre alcune innovazioni, aggiungendo nuove spezie e nuovi aromi al pane, fino a creare circa 72 tipi diversi di pani, dal tipo speziato a quello al miele.
Erodoto, etnografo greco, osservò tra gli usi degli Egizi quello di lavorare l’impasto aiutandosi con i piedi.
Elemento centrale dei riti religiosi, il pane ha un valore centrale nella Bibbia e nei testi sacri, oltre a essere diventato simbolo delle necessità alimentari primarie dell’uomo ed elemento prezioso della quotidianità.
Gli Ebrei ancor oggi hanno l’usanza di consumare pane azzimo “Matzah”, cioè non lievitato, per commemorare l’esodo dall’Egitto; l’uso del pane non lievitato è simbolo dell’accingersi a intraprendere il viaggio, data la rapidità della preparazione e la ottima possibilità di conservazione di tale tipo di pane.
Nella Bibbia il pane viene menzionato spesso: quando Adamo mangia il frutto dell’albero del bene e del male, viene redarguito da Dio: “In sudore vultus tui vesceris pane”: “Ti procaccerai il pane col sudore della fronte” (Genesi 3, 19). Quando tre angeli si presentano alla tenda di Abramo, questi li pregò di entrare, ordinando alla moglie Sara: “Pane non ce n’è più, prendi tre misure di farina, impastala e fai delle schiacciate“. Esaù vendette a Giacobbe la primogenita per un pò di lenticchie e pane. A Satana che lo tentava nel deserto, durante il digiuno, Gesù rispose: “Non di solo pane vive l’uomo“, confermando l’importanza di questo alimento, che poi nobilitò inserendolo nella Preghiera del Pater Noster: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano“, e convertendolo nella sua carne durante l’ultima cena: “Spezzatelo e mangiatelo tutti: questo è il mio corpo dato in sacrificio per voi“.
I Romani disponevano già nel 168 a.C. dei primi forni pubblici in città e avevano dato inizio all’era artigianale del pane, impiegando maggiormente quella del farro (Triticum spelta), il cui uso era diffusissimo nella loro alimentazione.
I Romani aveva imparato, da alcuni prigionieri Macedoni, a metà circa del II secolo a.C., a fare il pane, ma, successivamente ogni patrizio fece costruire nella propria villa un forno dotato di tutte le attrezzatura per la produzione del pane. Ai tempi di Augusto (63 a.C. – 14 d.C.) i forni pubblici in città erano circa 400, e producevano pane per la plebe e i soldati di Roma. Il prezzo della farina di frumento per la panificazione veniva stabilito per legge per cui diventava industria di stato. I Romani, fino alla caduta dell’impero, misero a punto diverse tecniche per rendere la panificazione un procedimento sempre più raffinato. Un’innovazione, in particolar modo, merita menzione: la sostituzione della macina in pietra (azionata da schiavi o animali) con il mulino facente leva sulla forza dell’acqua. Veniva prodotto il primo “pane bianco”. Lo storico romano Plinio parla addirittura di vari tipi di pane, tra cui il panis testicius, antesignano della nostra piadina e diffuso tra gli eserciti, oltre allo strepticius, composto da un impasto di farina, acqua, latte, olio, strutto e pepe.
Nel 150 a.C. nella Roma antica si costituirono le prime corporazioni di fornai (pistores) e si diffusero diversi tipi di pane, in cui entravano anche ingredienti diversi, come latte, miele o burro, appannaggio questi ultimi dei ceti più ricchi. Le focacce (placenta e offa) erano preparate per lo più con acqua e orzo. L’adipatus, era condito con lardo, lo strepticius era una sfoglia impastata di farina, latte, olio cotta su una pietra arroventata. L’artolaganum era un impasto di acqua e farina steso a formare una sfoglia sottile, antenato probabilmente della pizza. Il nome deriva dalle parole greche artos (pane lievitato) e laganon, (impasto di acqua e farina). Durante il periodo di Roma Capitale del Mondo, il grano è stato l’alimento più importante della popolazione ed era consumato prevalentemente sotto forma di pane.
Con la caduta dell’impero romano i panifici scomparirono e durante il Medio Evo la popolazione tornò alla preparazione casalinga ma, non potendosi permettere il pane fatto con farina di frumento ritornarono ad usare cereali come farro, orzo o altri.
Tra i secoli XI e XII, si affermava nell’economia rurale il mulino e nel XIV secolo il mestiere del fornaio. Classi agiate mangiavano pane bianco ma i contadini erano costretti a mescolare il frumento con orzo, segale e avena ottenendo un prodotto di scarsa qualità organolettica e nutritiva: il pane era pertanto diventato simbolo delle diverse classi sociali.
L’importanza dei fornai e del ruolo sociale ed economico da essi raggiunti è evidente se si considera che nel 1202 una legge inglese fissava il massimo guadagno consentito in base al peso delle pagnotte prodotte. Per tutelare gli interessi e per distinguere i propri prodotti, i fornai coniarono i primi marchi di fabbrica (“trademark”) della storia. Nel Medioevo le ricette si arricchirono sempre più, con l’aggiunta di ingredienti sempre più sofisticati, come acciughe, formaggio, erbe aromatiche.
Il procedimento di preparazione del pane continuò a perfezionarsi durante il Rinascimento e Maria de’ Medici (1575-1642) introdusse la lievitazione con l’aggiunta del lievito di birra.
Nel periodo dell’Alto Medioevo la cultura alimentare greco-romana, basata sui cereali, veniva a confrontarsi con quella celtico-germanica, con proficuo scambio di esperienze. I cerali tipici dell’alimentazione mediterranea si diffusero al Nord, grazie ad una diffusa presenza monastica. Nelle regioni intermedie, come per esempio l’Italia Padana, a dispetto della profonda romanizzazione subita nei secoli precedenti, si assunse una fisionomia culturale per molti versi più analoga a quella continentale. Si puntò sui cereali meno esigenti e adatti a climi più rigidi, come l’orzo, l’avena, il miglio, il sorgo e soprattutto la segale, vera “invenzione” e scoperta dell’Alto Medioevo.
C’era una notevole differenza di alimentazione tra i ricchi e i poveri. In condizioni normali il grano era convogliato prevalentemente in città, dove i cittadini mangiavano pane bianco di frumento, mentre i contadini, nelle campagne, continuavano a consumare il pane nero e la polenta di cerali considerati inferiori. Ancora nel XVI secolo il grano figurava soltanto sulla tavola dei più ricchi.
Nel 1861, anno dell’Unità d’Italia, gli Italiani consumavano più di un chilo al giorno (circa 1.100 grammi) spendendo 30 centesimi di lira al chilo. Oggi il suo consumo è sceso a 120 grammi a persona al giorno (e cala sempre più), con un prezzo che tocca in media i 2,50 euro al chilo.
Alla fine dell’Ottocento il pane rappresentava oltre l’80 per cento dell’alimentazione tipica degli italiani: mangiare “pane e acqua” non era solo un modo di dire, ma la metafora per raccontare una dieta composta in larghissima parte dal solo pane accompagnato a cipolle, un pezzo di formaggio, pomodori, fagioli o ceci.
Durante la primavera del 1898, fu proprio il forte rincaro del prezzo del pane a promuovere le agitazioni popolari che si verificarono in varie parti d’Italia, soprattutto a Milano e Luino. Quella che oggi viene ricordata come la “protesta dello stomaco” fu originata dall’improvviso rialzo del costo del pane: in media 46 centesimi di lira al chilo, troppo per un operaio che guadagnava meno di 2 lire al giorno e doveva mantenere una famiglia solitamente numerosa.
Nel ’17, sotto i palazzi degli zar, il popolo chiedeva solo pane.
Anche il periodo del secondo conflitto mondiale è stato fortemente condizionato dalla produzione di pane: la dicitura “anni del pane nero” rimanda all’assoluta povertà degli italiani in guerra e all’eroismo delle donne che – rimaste in casa con i figli – combattevano contro la fame, impastando farina non raffinata e usando per la preparazione delle “pagnotte” ingredienti meno pregiati e a più basso costo del frumento, come crusca, segale, farina di castagne.
Era pure il periodo della “borsa nera” e delle speculazioni sul cibo: per provare a bloccarle nel 1944, cioè molto tempo prima del calmiere dei prezzi contro l’inflazione alta, fu emanata una legge che puniva fino a tre anni di reclusione chi avesse venduto alcuni generi di prima necessità (in primis il pane) a prezzi superiori a quelli stabiliti dall’autorità.
Il “grande salto” avviene negli anni Sessanta, che segnano la prima inversione di tendenza nel consumo di pane. Il “miracolo economico”, infatti, cambiò radicalmente le abitudini alimentari degli italiani: nel 1961 si mangiava il doppio rispetto al 1951, il quadruplo rispetto a inizio secolo. La generazione del 1900 consumava come quantità circa 380 chili di alimenti pro capite; nel 1961 si sono toccati i 610 chili.
Il pane valeva il 40 per cento circa del totale della spesa alimentare degli italiani, soppiantato dal consumo nuovo e massiccio di carne, latticini, frutta, verdura e soprattutto zuccheri. E costava anche di più: l’economia del Paese cresceva e così si passava bruscamente dalle 45 lire al chilo del 1945 alle 150 lire al chilo del 1960 alle 450 lire del 1975.
Negli ultimi trent’anni il trend discendente non si è più fermato, complice il mutamento degli stili di vita e le prescrizioni dei nuovi regimi alimentari. E’ cambiato il fabbisogno energetico giornaliero: all’inizio del 1900 il lavoro manuale (nei campi, nelle fabbriche) richiedeva un apporto di almeno 5mila calorie al giorno, mentre a partire dagli anni ’70-80 si stabilizza sulle 1.500-1.800 calorie giornaliere, anche per l’incremento esponenziale del numero di impiegati e lo sviluppo di lavori più sedentari.
La conseguenza è stata la riduzione progressiva del consumo di pane: nel 1980 si aggirava intorno agli 84 chili annui pro capite (e costava 850 lire al chilo); nel 1990 si scendeva a 72 chili (a 1.500 lire al chilo); nel 2000 si arrivava a 66 chili (a 4.300 lire al chilo) e nel 2010 si attestava a 43,8 chili (e 2,50 euro al chilo).
Nel 1861, anno dell’Unità d’Italia, allorché si mangiavano ben 1,1 chili di pane a persona al giorno; nel 1980 si mangiavano intorno ai 230 grammi a testa al giorno, nel 1990 a 197 grammi, nel 2000 a 180 grammi, nel 2010 a 120 grammi e nel 2012 a 106 grammi per arrivare a meno di 100 grammi nel 2013, a 90 grammi nel 2014.
Non sono solo questi i cambiamenti intervenuti. Nel passato il pane doveva avere una caratteristica principale: doveva durare diversi giorni ed essere mangiabile anche dopo qualche tempo. La panificazione era un’arte che doveva risolvere un problema importante: la farina veniva frequentemente attaccata da parassiti, mentre il cereale non macinato era molto meno vulnerabile. Pertanto era necessario conservare le provviste di graniglie non macinate e recarsi al mulino a macinare volta a volta piccole quantità di cereale, in modo che potesse essere consumato prima che lo attaccassero i parassiti. Talora piccole quantità di farina erano ottenute in casa, pestando i chicchi in grandi mortai di pietra con un pesante pestello di ferro. Nei paesi di campagna vi erano uno o più forni, che cuocevano anche per conto terzi, ai quali le massaie potevano portare le forme di pane a cuocere.
In effetti, il pane è sempre stato l’emblema dell’alimentazione popolare, baluardo di lotta contro la miseria di alcuni periodi storici; oggi, opponendosi alla cultura del superfluo, in una sorta di ritorno al passato, all’essenziale, il pane fatto con cereali poveri attira e, si è disposti ad acquistarlo persino a caro prezzo presso alcune boutique del pane.