OMS: Le disuguaglianze uccidono su larga scala
Lo afferma l’OMS (Organizzazione Mondiale Sanità). Niente di più vero. Basta analizzare gli ultimi dati italiani per rendersene conto.
Ogni anno il Ministero della Salute pubblica il report “Monitoraggio dei Lea attraverso la c.d. Griglia Lea” che, con l’assegnazione di un punteggio, attesta l’erogazione delle prestazioni sanitarie che le Regioni devono garantire ai cittadini, gratuitamente o attraverso il pagamento di un ticket. La griglia, una vera e propria “pagella”, consente di identificare Regioni promosse (adempienti), e quindi meritevoli di accedere alla quota di finanziamento premiale, o bocciate (inadempienti). Le Regioni inadempienti sono sottoposte ai Piani di rientro, strumento che prevede uno specifico affiancamento da parte del Ministero della Salute che può sfociare persino nel commissariamento della Regione. Non sono sottoposte alla verifica degli adempimenti: Friuli Venezia-Giulia, Sardegna, Valle D’Aosta e le Province autonome di Trento e di Bolzano.
La Fondazione Gimbe, analizzando i risultati dei monitoraggi annuali del Ministero della Salute relativi al periodo 2010-2019, ha concluso che “i numeri sulle cure garantite ai cittadini registrano 10 anni di diseguaglianze regionali in sanità e sottolineano ancora la spaccatura tra Nord e Sud in Italia”. Tra le Regioni che hanno assicurato le prestazioni sanitarie ai propri cittadini, in un decennio, in testa c’è l’Emilia Romagna mentre tra le prime dieci non compare nessuna Regione del Sud. In testa alla classifica per l’erogazione delle prestazioni si posiziona l’Emilia-Romagna con il 93,4% di adempimento, in coda la Sardegna con il 56,3% (Regione esclusa dal monitoraggio Lea). Tra le prime 10 Regioni anche Toscana (91,3%), Veneto (89,1%), Piemonte (87,6%), Lombardia (87,4%), Umbria (85,9%), Marche (84,1%), Liguria (82,8%), Friuli Venezia-Giulia (81,5%) e Provincia autonoma di Trento (78,8%). Seguono: Abruzzo (76,6%), Basilicata (76,4%), Lazio (75,1), Sicilia (69,6%), Molise (68,0%). Agli ultimi 6 posti, oltre alla Sardegna (ultima), Puglia (67,5%), Valle d’Aosta (63,8%), Calabria (59,9%), Campania (58,2%), Provincia autonoma di Bolzano (57,6ì. Nella prima metà della classifica si posizionano dunque solo due Regioni del centro (Umbria e Marche) e nessuna Regione del Sud, a riprova dell’esistenza di una “questione meridionale” in sanità.
Il dato non sorprende e non è nuovo. Quel che sorprende è la scoperta dell’esistenza di una “questione meridionale in sanità” perché questa purtroppo è atavica. Né deve sorprendere che in tanti anni, davvero tanti, nessun regime politico, nessuna forza, alleanza, associazione sia riuscita ad invertire la tendenza. In effetti, come altri hanno affermato, le diseguaglianze nella salute risultano inconfutabilmente «intense», «regolari» e «crescenti».
Alla complessa problematica ho dedicato un intero volume (Castello G: LA LOGICA DELLA DISUGUAGLIANZA. Edizioni Scientifiche Cuzzolin, Napoli, pp. 352, 2006), nel quale ho documentato, con dati inconfutabili, come la «disuguaglianza» non sia per niente casuale, bensì sia voluta e risponda a precisi dettami tanto da rivelare una vera e propria «logica della disuguaglianza». Ho cercato anche di dare un piccolo contributo e suggerire qualche soluzione fattibile, se c’è la volontà di risolvere il problema.
Un vecchio detto napoletano dice “O pesce fèta da ‘a capa”; letteralmente significa “il pesce puzza dalla tesa”, vale a dire che il cattivo esempio viene dall’alto: gli errori maggiori vengono commessi dai capi, per cui, se si vogliono raddrizzare le cose, bisogna cominciare a prender provvedimenti seri innanzitutto contro i “vertici” inadempienti. Analogamente, non si possono risolvere i problemi del Meridione se non si risolvono i purtroppo innumerevoli problemi della capitale. “Il problema di Napoli – affermava Nitti nell’articolo Su i recenti fatti di Napoli del dicembre 1900 – non è soltanto economico, ma soprattutto morale ed è l’ambiente morale che impedisce qualsiasi trasformazione economica”. Combattere allora contro tale ambiente, che trova protezione e collusione diffuse, ora come allora, con quello politico e camorristico, non è solo difficile o improbo, ma richiede tempi lunghi per originare una reattività diffusa. Importante è non avvilirsi in quella mortificante tolleranza che diviene via via supina rassegnazione (rassegnazione torpida ovvero torpore di morte, secondo Nitti), e dar voce alla propria coscienza, evitando possibilmente giustificati risentimenti verso quanti, tanti, che, ignoranti l’etica e senza pudore si esercitano – come affermato dal filosofo Aldo Masullo – in quella poco virtuosa gara a scavalco che antepone i propri interessi a quelli della comunità.
Il disagio al Sud è globale e investe non solo la qualità di vita ed i differenti contesti di vita (familiare, educativo, scolastico, ricreativo, culturale, sociale, sanitario, sportivo, lavorativo, economico, etc.), bensì mette a repentaglio la vita stessa. Pochi dati sono sufficienti a validare tale asserzione.
L’Istat, nel suo report annuale “Misure del benessere equo e sostenibile dei territori”, certifica che nel 2021 la stima della speranza di vita alla nascita si è attestata su 82,4 anni (80,1 per gli uomini e 84,7 anni per le donne). Al contempo, però, si è ampliata la distanza tra Nord e Sud del Paese, arrivando a registrare ben 1 anno e 7 mesi di vita media in più nel Settentrione. La speranza di vita alla nascita totale scende, infatti, nel Mezzogiorno a 81,3 anni nel 2021, con una riduzione di 6 mesi rispetto al 2020 che si aggiungono ai 7 mesi già persi nel 2020 rispetto al 2019, mentre si attesta a 82,9 al Nord, con un recupero di quasi un anno rispetto al 2020. Scendendo nel dettaglio territoriale, il dato sulla sopravvivenza mette in luce l’enorme svantaggio delle province di Caserta e Napoli che hanno una speranza di vita di oltre 2 anni inferiore a quella nazionale.
Altro dato molto negativo, visto che si tratta di morti evitabili con idonee politiche di prevenzione, è quello relativo alla mortalità: infatti, la Campania, la Sicilia, la Sardegna, il Lazio, il Piemonte e il Friuli presentano valori elevati di mortalità prematura, con una dinamica negativa tra il 2004 e il 2013 che le vede costantemente al di sopra della media nazionale.
Ai dati negativi contribuisce non poco un riparto del Fondo sanitario non coerente con i bisogni di salute della popolazione. Non sembra, infatti, plausibile che regioni come la Campania e la Calabria ricevano minori finanziamenti, pur denotando condizioni di salute peggiori di altre regioni. Per fortuna, la Conferenza delle Regioni ha trovato l’accordo all’unanimità sul riparto del Fondo Sanitario Nazionale 2022 (quota indistinta e della premialità per un totale di 117.921.046.120 miliardi di euro su una dotazione complessiva del Fondo Sanitario Nazionale per l’anno 2022 pari a circa 126 miliardi). Tra i nuovi criteri introdotti per cercare di garantire il massimo equilibrio nell’erogazione dei livelli essenziali di assistenza, accanto alla pesatura della popolazione per l’età anagrafica, prendere in considerazione anche il tasso di mortalità e della deprivazione socio-economica. Inoltre, è stato approvato il principio generale secondo il quale le differenze di finanziamento pro-capite tra le varie regioni devono tendere a ridursi entro margini tollerabili di variabilità.
Sarebbe infine auspicabile rivedere i criteri di esenzione dalla compartecipazione alla spesa sanitaria e di accesso alle cure e intensificare gli sforzi per combattere l’elevata evasione fiscale che attanaglia il nostro Paese e mina la sostenibilità dell’intero sistema di welfare state.
Sono questi solo alcuni piccoli suggerimenti che possono essere ulteriormente approfonditi da un’attenta lettura del volume LA LOGICA DELLA DISUGUAGLIANZA per trarre nuovi spunti, sebbene lo scritto risalga a circa trent’anni fa. La questione meridionale in sanità non è nata ieri.